Il flop delle start up italiane: non creano impiego, stentano ad andare all’estero e non sono aiutate dal Paese – Business Insider Italia

Il flop delle start up italiane: non creano impiego, stentano ad andare all’estero e non sono aiutate dal Paese – Business Insider Italia

Condivido un articolo sulle StartUp italiane di Business Insider Italia

Il fenomeno delle startup è sempre attuale, anche se i riflettori dei media si stanno spegnendo piano piano o, meglio, stanno adottando nuove metriche per raccontare quella promessa che istituzioni ed enti preposti continuano a reiterare, senza che si avveri mai. Un mondo frenetico e caotico, sempre in movimento e frizzante, anche se a tratti sembra che non ci sia una meta da raggiungere.

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In cima agli elementi che creano caos c’è la definizione stessa di startup. L’opinione generale è che una startup sia un’azienda nella sua fase di avvio. Definizione non misurabile in assenza di un limite temporale che racchiuda questa fantomatica fase. Quanto dura? un anno?  tre anni? cinque anni? Questa fase ha la stessa durata per un’azienda che vende prodotti tramite una piattaforma web che per una che fa ricerca e sviluppo?

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È più probabile che la fase di startup finisca quando l’impresa è in grado di provvedere alle proprie esigenze di bilancio in modo autonomo, cominciando ad ammortizzare i debiti o a dare soddisfazioni economiche agli investitori. Uber, nata nel 2009, è ancora una startup perché la sua fase di avvio non è ancora terminata: gode di forti iniezioni di capitali, brucia cassa a ritmi impressionanti, non ha mai chiuso un esercizio nelle cifre nere.

Travis Kalanick, Ceo di Uber. Mike Windle/Getty Images for Vanity Fair

Facebook, nata nel 2004, è uscita dalla fase di startup molto prima del 2012, anno in cui è approdata a Wall Street, tant’è che il primo bilancio positivo è stato depositato nel 2009.

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Alle nostre latitudini il caos è moltiplicato da questioni più tecniche, a partire dall’apposito registro voluto dal ministero dello Sviluppo economico e che accoglie oggi 6.973 startup innovative, in barba al decreto legge “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” (179/2012) il quale, all’articolo 25, impone i requisiti utili all’identificazione di una startup innovativa, tra cui spicca: “Deve avere quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi adalto valore tecnologico”, senza però porre ulteriori valutazioni misurabili ai concetti di “prevalente” e di “alto valore tecnologico”.

L’home page del registro delle startup

Come vedremo, così non è: il registro per le startup contiene di tutto un po’ e, tra le 6.973 censite non manca qualche sorpresa, incluse quelle neo-imprese che non hanno un sito web, non per forza essenziale per fare business ma che dovrebbe rientrare nei fondamentali di un’azienda ad alto valore tecnologico.

La regione con il maggior numero di startup è la Lombardia che ne conta 1.586, con Milano (e provincia) capitale per numero di imprese ad alto valore tecnologico. A seguire l’Emilia Romagna (780), il Lazio (665) e il Veneto (613). Si tratta di numeri utili a inquadrare meglio il fenomeno e, per essere più esaustivi, andrebbero comparati al numero di aziende tradizionali e al numero di abitanti per regione e provincia.

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Cliccando su una regione, la mappa che segue restituisce il numero di startup per regione e provincia. I dati sono estrapolati dal rapporto del Registro Imprese e sono aggiornati al 31 marzo 2017.

 

Nel futuro delle startup ogni Paese investe fiducia e speranze, in primis per quello che riguarda la creazione di impiego. Da questo punto di vista in Italia l’imprenditoria a valore aggiunto sembra avere fallito la missione, perché le 2.669 startup che impiegano personale generano 8.669 posti di lavoro, con una media di 3,25 posizioni ognuna.

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Le società di capitali tradizionali che hanno dipendenti sono invece 632.991 e danno lavoro a 8.832.898 persone. La ratio società di capitali e startup – che sono lo 0,43% – svantaggia queste ultime le quali, per tenere il passo, dovrebbero creare circa 30mila impieghi in più.

Le notizie poco buone non sono finite: tutti gli indici della produzione delle startup sono in calo. In questo caso i dati più completi risalgono al 2015 (i bilanci del 2016 sono ancora in fase di preparazione) e offrono una tendenza alla contrazione. Il fatturato medio è di 122.600 euro (-15% rispetto al terzo trimestre 2015), l’attivo medio è di circa 237.000 euro (-10,9%) e il valore di produzione delle startup (questa volta il dato è al 31 marzo 2017) è di 454,68 milioni di euro, in calo di 129 milioni rispetto alla fine del 2015 (-22%). Inoltre solo 42 startup ogni 100 raggiungono la zona utili.

I dati sopra vanno contestualizzati perché, dall’elenco della sezione del registro delle imprese dedicate alle startup, escono quelle aziende considerate mature, ovvero che hanno più di 4 anni di vita. Se è giusto porre un limite di permanenza nel registro è indubbio che sia sbagliato basarlo su un calcolo temporale.

Le immobilizzazioni sull’attivo patrimoniale, ovvero quei beni iscritti a bilancio la cui durata continua su più esercizi contabili, sono al 28,39%. Un tasso molto superiore a quello medio delle società di capitali tradizionali (5,74%). Le immobilizzazioni sono, ad esempio, macchinari, veicoli ma anche licenze e brevetti.

Questo dato non deve stupire, se non in relazione agli indicatori di redditività ROI (indici di redditività del capitale investito) e ROE (indice di redditività del capitale proprio) che, negli ultimi mesi, sono generalmente scesi. I fattori produttivi delle startup (le immobilizzazioni) sono maggiori di quelli delle società tradizionali ma ROI e ROE sono generalmente negativi.

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Se ci si limita alle startup che hanno chiuso l’esercizio 2015 con un utile, tali indici sono appena superiori a quelli delle società di capitale (ROI 0,11 contro 0,02 e ROE 0,26 contro 0,03). L’unica nota positiva risiede nel valore aggiunto sulla produzione il quale, sempre misurato solo sulle startup che conseguono utili operativi, è di 32 centesimi contro i 21 delle aziende tradizionali.

Questa la fotografia. Ora resta da comprendere perché, nonostante la fiducia riposta, le startup non creino impiego e non riescano a crescere come auspicato. Ci siamo avvalsi del parere autorevole di Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup e finanziatore seriale, conoscitore del tessuto italiano (e mondiale) dell’imprenditoria a valore aggiunto.

Marco Bicocchi Pichi

«L’Italia si è rivelata una delusione dal punto di vista dello sviluppo dell’ecosistema. La mia è una visione critica rispetto all’Italia come Paese di non investitori, in particolare rispetto anche alle grandi famiglie imprenditoriali e ai grandi gruppi, ed è una visione molto meno critica nei confronti dei governi; i cui passi per lo sviluppo delle startup sono andati nella direzione giusta, anche se il contesto generale rimane critico per le imprese».

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Le startup non creano impiego e la spiegazione è semplice e storica: «l’Italia è un paese che ha visto, nel suo boom economico [nel secondo dopoguerra, ndr], un mercato sostanzialmente giovane e domanda interna molto significativa. Oggi queste condizioni sono molto diverse, l’Italia fa parte dell’Europa e di accordi più ampi di scambi internazionali, ha una demografia vecchia e ha una domanda interna minima e stagnante. Una nuova piccola impresa come una startup, per crescere e per farlo rapidamente, ha bisogno di andare sui mercati internazionali, perché manca la domanda interna, ma in assenza di investimenti diventa quasi impossibile andare sui mercati esteri.

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Il venture capital finanzia quelle startup che mostrano di avere una forte domanda del proprio prodotto e, se la domanda interna non c’è come è il caso dell’Italia, andare all’estero è praticamente obbligatorio ma complicato. O le startup trovano finanziamenti da amici, parenti o business angel o hanno un prodotto digitale così rivoluzionario che spacca la rete e si diffonde con viralità nel mondo. Questa seconda ipotesi, pur non essendo completamente assente, è più rara».

Limiti che penalizzano la creatività italiana e la voglia di fare impresa che da sempre ci contraddistingue, in un momento particolarmente brillante del made in Italy nel mondo, soprattutto nel Far East asiatico ma non solo.

In questo quadro la sezione speciale del Registro delle imprese dedicata alle startup innovative appare inutile e, di fatto, conta numerosi detrattori. Tra questi non c’è però Italia Startup che è a favore, seppure con qualche limite: «Noi di Italia Startup – continua Marco Bicocchi Pichi – difendiamo questo startup compact perché non crediamo sia negativo, può non essere sufficiente né forse abbastanza significativo ma i motivi non derivano dalla legislazione, nata da una task force voluta dal ministro Passera (2012) con un approccio che tenesse conto delle scelte del governo Monti molto focalizzato sui vincoli e condizionamenti, creando una “zona speciale” in cui inserire un numero limitato di imprese che potessero godere dei vantaggi predisposti dal decreto “Crescita 2.0” ».

Il flop delle start up italiane

24/05/2012 Roncade, Italia Startup Open Day presso l’incubatore H-Farm, nella foto Corrado Passera

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Vantaggi soprattutto di tipo fiscale riservati agli investitori, sostegno all’internazionalizzazione e accesso alla raccolta dal basso (crowdfunding), oltre ad altre peculiarità relative all’accesso al credito.

«Questa zona è stata spinta dal ministro Passera e il suo relativo successo dipende dal sistema Italia che, con lungaggini burocratiche e pressione fiscale, rende più difficile lo sviluppo delle imprese in generale e se è difficile fare impresa, sviluppare startup diventa difficilissimo malgrado alcuni incentivi».

Per invertire questo andamento poco lusinghiero bisogna «creare una piattaforma che faccia sbarcare le nostre startup all’estero. Francia e Germania hanno degli hub per portare le startup fuori dai confini, da noi si agisce su iniziative private o singole. Non c’è un sistema in questo senso, nonostante il corpo politico vada spesso in America a fare viaggi non c’è una strategia di sistema Paese che unisca imprese ed investimento pubblico coordinando volontà ed azioni».

Va creato un sistema di selezione rapida «non tutte le imprese meritano di sopravvivere, ma vanno testate in un mercato pronto a dare loro una possibilità».

E, infine, perché nella sezione speciale del Registro delle imprese dedicata alle startup innovative ci siano anche aziende che di innovativo non hanno nulla: «per snellire le pratiche di accesso si è giustamente scelta l’autocertificazione dei titolari delle aziende. In effetti l’elenco andrebbe pulito».

«Abbiamo creato le condizioni per far nascere un sistema startup ma collettivamente – conclude Bicocchi Pichi – non stiamo facendo abbastanza per dare a queste imprese l’occasione di svilupparsi. L’accesso al mercato è la condizione essenziale e perché si verifichi occorre innescare un circolo virtuoso di finanziamenti per accedere ai mercati internazionali. Lo schema di sviluppo che parte dal mercato domestico non è più attuale, il mondo e l’Italia non sono più quelli degli anni del boom economico».

Questione di cultura, di un modo non più attuale di fare impresa ma, soprattutto, una grande occasione che l’Italia sta sprecando.

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